I taccuini di Tarrou – 461 – Il dramma della solitudine

La solitudine può produrre effetti devastanti sull’uomo, soprattutto se ad essa si associa un’attività riflessiva, dialettica febbrile, abissale. I drammi di Raskol’nikov e Kirillov sono anzitutto drammi della solitudine. È grazie a Sonja, alla sua pietà, al suo amore, e a Porfirij, il suo pungolo nel castigo, che Raskol’nikov si salva e risorge alla vita. Da solo non ce l’avrebbe fatta. Da solo si sarebbe consegnato a Svidrigajlov, avrebbe ceduto definitivamente al fascino del male, dell’esistenza fondata sul male, vissuta nel male, emanato da Svidrigajlov, e in quella notte di terribili tormenti, la sua ultima notte da uomo “libero”, anch’egli come Svidrigajlov avrebbe finito per suicidarsi. Sono Sonja, Porfirij e gli affetti più cari – la madre, la sorella, la povera fidanzata deceduta – a trattenere Raskol’nikov sull’orlo dell’abisso, a tenerlo legato alla vita, all’essere.

A differenza di Raskol’nikov il caro, nobile e puro Kirillov non incontra una Sonja, né un Porfirij, né ha cari intorno a sé (incontra soltanto Stavrogin, ma Stavrogin è il nulla, e come tale condanna alla distruzione chiunque abbia la sfortuna di entrare nella sua dannata orbita), e finisce per annientarsi in se stesso, nella propria idea, che è più di un’ossessione, persino più d’un credo, è lui stesso, interamente, in ogni dimensione del proprio essere, fisica oltreché metafisica e spirituale.

Ribadisco ciò che ho scritto più volte in questi taccuini: nessuno si salva da solo, mai; per risorgere, per tornare alla vita è necessaria la presenza di qualcuno che la vita la trasmetta, la infonda, e con essa infonda anche l’amore e la fede, se non Dio almeno nell’amore e nella persona amata. È questo uno dei messaggi più profondi e potenti di Dostoevskij.

Ma non tutti coloro che hanno bisogno di essere salvati hanno la fortuna d’incontrare l’essere che li salvi, e allora all’abisso, alla distruzione, al nulla non c’è rimedio, come nel caso di Kirillov. Come nel mio caso. Non la vita, non l’amore, non la fede – dunque, forse, non la pace – posso aspettarmi dall’esistenza, ma soltanto tristezza e rassegnazione. Tenterò con tutto me stesso di non chiedere altro.

Precedente I taccuini di Tarrou - 460 - Sull'omicidio (e Dostoevskij) Successivo I taccuini di Tarrou - 462 - Io non dormo mai

Lascia un commento